CAPITOLO QUARTO
Piaghe molto diverse
Non ero più tornato alla scorciatoia, anzi non desideravo tornarci, quel capitolo era ormai chiuso per me e, nell’attesa della licenza, pensai a curarmi dei molti disturbi che desideravo lasciare alle mie spalle partendo, come avrei lasciato il ricordo di Mariam. Adesso, all’insonnia s’era sostituita una perenne sonnolenza; e me ne compiacevo, attribuendola alla calma subentrata nel mio animo dopo tante agitazioni. Se non avessi avuto talvolta forti emicranie, poco mi sarei curato di approfondire le cause di quel dolce dormire. Passavo le giornate nella tenda, leggendo, oppure ascoltando i rumori dell’accampamento, che mi giungevano rari e smorzati. E spesso dormicchiavo.
La mano stava guarendo. Scomparso il vasto gonfiore dei primi tempi, restava adesso sul dorso una trascurabile tumefazione. Al centro di questa, s’era formata un’escrescenza non più grossa di un cece, ma non mi dava fastidio, anzi toccandola quasi non la sentivo. Seguitavo a fasciare la mano soltanto per non esporla a contagi. Pure non ero soddisfatto. Quando consultai il dottore, questi mi rassicurò dandomi una pomata e attribuendo tutti i miei disturbi alla mancanza di cibi freschi, che soffrivamo da molti mesi. Nel riposo cercai la cura al mio tenace malessere.
Sì, l’appetito era scomparso e a fatica mi recavo alla mensa, dove non senza disgusto vedevo gli altri gettarsi sulle pietanze con incredibile appetito. La gola mi si chiudeva, dovevo inventare un pretesto per andarmene.
Ma tutto sarebbe passato, il mio male aveva radici momentanee e, durante il viaggio di ritorno in Italia, sul piroscafo, l’aria del mare, la certezza di essere per sempre fuori di quella terra che m’angustiava, m’avrebbero risollevato. In quel tempo erano cominciate le piogge, che sarebbero durate sino al settembre, cioè per tre mesi. Ogni giorno, a ore fisse, avremmo avuto la pioggia e, per quanto ce ne venisse qualche disagio, pure (dopo tanto sole) vedevamo con gioia bagnarsi la terra. I soldati si sdraiavano nelle loro cucce e cantavano, modulando il tono di quelle loro lente e vecchie canzoni alla malinconia che apportava la pioggia. L’accampamento si assopiva sotto una leggera nebbia, pensavamo alle nostre città. La notte, il gocciolare sui teli della tenda conciliava il riposo e sbrigliava la mente in care fantasie. Pensavo a Lei, a ciò che rappresentava per Lei il mio ritorno, rileggevo infinite volte le sue lettere, trovandovi sempre qualcosa di nuovo, che vi aggiungeva forse la mia ansia di rivederla. Tutto era pronto per ricevermi, lassù.
Elias era da qualche giorno in giro nelle città della vecchia colonia e non sentivo più la sua presenza vicino alla tenda. Anzi, mi rallegravo: al suo ritorno la pioggia gli avrebbe impedito di restare lì, allo scoperto, e sarebbe tornato nel suo magazzino. Ma una sera (m’ero gettato sulla branda e fantasticavo), sentii vicino il suo insopportabile respiro. Dapprima credetti a un’allucinazione, poi mi convinsi ch’era proprio Elias. Stava accanto alla tenda, s’era coperto alla meglio con un sacco riposava. “Elias” chiamai.
“Comandi!” La tenda si aprì di colpo e comparve il bimbo. Gli chiesi quand’era tornato.
“Un’ora fa, tenente” e mostrò sul palmo della mano la somma che aveva guadagnato. Aspettava che gli dicessi qualcosa, stava fermo sotto quella leggera pioggia, ignorando l’acqua che gli bagnava il volto. Non gli dissi di entrare e lo lasciai lì. “Eccolo,” dicevo a me stesso “ecco il più piccolo della congiura e il più spietato.” Tutta la mia vecchia inquietudine, sopita nei giorni della sua assenza, risorse di colpo e cominciai a tremare per l’ira che mi suscitava la vista di quel bimbo troppo ubbidiente, troppo fedele. E sempre più somigliava alla donna. Rivedevo il suo volto.
Elias non osava muoversi, aspettando un mio cenno. “Vieni qui” dissi. Quando mi fu vicino il mio odio scoppiò: “Via” dissi “se ti vedo ancora ti farò arrestare”.
Il bimbo ne restò sorpreso, poi sorrise e fece il gesto di toccarmi una mano. Certo era uno scherzo, voleva dire, stavo scherzando! Prese dunque la mia mano e se la pose sul capo, in segno di servitù, per dire che avevo ogni potere su di lui. Quel gesto fiducioso finì di precipitare la mia ira. Accecato, spinsi Elias a terra, fuori della tenda e gl’ingiunsi di andarsene. Il bimbo era caduto e mi guardava, ancora sorridente, ancora credendo che lo scherzo seguitasse. Poi, vidi che le sue labbra tremavano, tutto il mondo gli stava crollando addosso, non ci capiva più nulla e scoppiò a piangere; ma i miei urli lo fecero tacere. Si alzò, avviandosi verso la strada. Corsi fuori della tenda, lo chiamai. “Vieni subito qui” dissi.
Ritornò come se nulla fosse accaduto, soltanto tremava leggermente, per l’umidità che aveva assorbito, immagino, e le labbra non ritrovavano più il loro sorriso. Gli indicai la cassetta (dovetti spostare il ritratto di Lei), e il bimbo sedette compunto, cercando di capire.
Volevo che parlasse del villaggio, ma non sapeva cosa dirmi, forse l’aveva dimenticato. E mi guardava, incapace di frenare il tremito delle ginocchia. “Cosa facevi tutto il giorno?” chiesi.
Abbassò gli occhi e rispose con un gesto che voleva significare: nulla, oppure soltanto l’indifferenza per le cose che aveva fatte un tempo e che ora gli apparivano meschine. “Non giocavi, non andavi a fare il bagno nel fiume?”
“Sì” e sorrise felice, ma subito ridivenne grave e abbassò il capo. “Solo?” chiesi.
“No, con tutti. “ Perché volevo incrudelire quel ricordo, perché volevo sapere tutto di lei? Pure, sentivo di aborrirla, e mi dicevo che la valle custodirebbe così bene il segreto che io potevo ormai ignorarlo. Non apparteneva più a me, ma alla terra, e a una terra che avrei lasciato per sempre tra un mese o due. Potevo anche convincermi di non aver commesso nulla che esorbitasse dalle leggi di questa natura, forse col tempo riterrei persino di non averla uccisa e già mi riusciva difficile rammentare la scena, o la rivedevo come attraverso un racconto altrui. Era una scena davvero confusa e, senza Elias, non avrei potuto ricordare il colore degli occhi di lei. Lentamente chiesi al bimbo a chi del villaggio voleva più bene, ma non rispose, la parola gli riusciva nuova e io non sapevo tra durla. “Con chi ti piaceva stare di più?”
Ancora allargò le braccia, per significare: tutti. O nessuno. Quando gli chiesi se Mariam andava al fiume, il bimbo rise scuotendo la testa e aggiunse: “Aveva paura”. “Di che aveva paura?”
“Harghez” e pronunciò questa parola rapidamente, con schifo e terrore, ma ridendo. Gli chiesi se anche lui aveva paura. Scosse la testa vigorosamente; ammetteva di sì.
“Adesso, vuoi dormire?” Senza attendere la sua risposta, presi un telo da tenda e lo applicai in modo da riparare il punto dove Elias s’era prima accucciato. Presi un altro telo e lo gettai sul terreno umido, sopra vi misi una coperta. “Dormi qui” dissi.
Elias s’infilò nel suo sacco, fece il saluto e si accucciò. Dopo qualche minuto, il suo respiro era la sola cosa che udivo, come il condannato a morte di tutti i rumori del carcere ode soltanto l’orologio che batte nel taschino del confessore. Ero così irritato con me stesso (avevo ribadito quella sciocca catena), che sfondai la cassetta con un calcio.
Alla sveglia, Elias era scomparso. Aveva lasciato il telo da tenda e la coperta arrotolati, come fanno i soldati, e se n’era andato. Ne fui sorpreso, temei persino che sotto questa fuga si celasse un disegno del bimbo, per impietosirmi e legarsi di più a me. Chiesi di Elias, nessuno lo aveva visto. Il contrabbandiere disse: “Non è gente che si affeziona”.
Queste parole mi sollevarono e non pensai più al bimbo.
Quando venne l’ordine di spostare il campo ad A., fu tanta la gioia dei soldati che anch’io riacquistai un po’di speranza.
Elias non era tornato e così avrebbe perso le nostre tracce. Forse ci avrebbe anche raggiunto, il contrabbandiere lo prevedeva, ma non dovermelo più sentire vicino era già un conforto. In quei giorni una insolita gaiezza si impossessò di me e i colleghi della mensa ripresero a ridere ai miei racconti. E il maggiore mi ripeté che stava occupandosi della mia licenza, e che stessi tranquillo. Dopo sei giorni eravamo accampati a un paio di chilometri fuori A., vicino a un altro reparto. Lì incontrai il sottotenente.
Il nostro incontro non fu molto cordiale. Io non seppi davvero fingere. Come tutte le cose e le persone che mi rammentavano Mariam, il sottotenente aveva ai miei occhi la sua parte di colpa. Ero poi angustiato dal mio malessere, che non accennava a scomparire. Anzi, negli ultimi giorni s’era aggravato. Ora intorno al ventre e sulle braccia erano comparse piccole macchie grigie e rosa e io le osservavo spesso, non decidendomi a consultare il medico per timore di una risposta che non volevo nemmeno immaginare. Mi vedevo davanti al medico, seminudo, e tremavo per la pausa che sarebbe seguita all’esame, per lo sguardo serio che m’avrebbe lanciato prima di dire la parola spaventosa. “Non è nulla,” pensavo “non può essere nulla di grave. È un disturbo giustamente causato da questa maledetta alimentazione. Il generale Lattuga non aveva tutti torti.”
Ai momenti di profondo sconforto succedevano perciò periodi di ottimismo, mi dicevo che l’essenziale era tornare al più presto in Italia, là mi sarei curato perfettamente, senza iniziare quaggiù una cura frettolosa. Se il medico del battaglione avesse sbagliato? Sarei finito in un ospedale a far da cavia, per lo studio delle malattie tropicali. Invece, era questione di poche settimane, ormai, e poi il ritorno. Dovevo curarmi da me, sopportare. Del resto, le macchie non dolevano affatto. Non doleva nemmeno la mano, anche se il cece non accennava a scomparire e, anzi, s’era leggermente, oh!, proprio leggermente ingrandito.
“Dove vai?” Era il sottotenente. Il nostro saluto diventava sempre meno cordiale, non riandavamo a quel periodo trascorso assieme, che pure avrebbe dovuto incitarci ai ricordi. Qualcosa era calato tra noi, stentavamo a riconoscerci, ma quel giorno non potevo ignorarlo. Dovevamo fare la strada assieme sino ad A., ed era meglio parlare, non avrei sopportato il silenzio, anzi preferivo i suoi racconti. “Tutto bene?” dissi.
“Tutto bene” rispose. Camminavamo cercando le frasi, come giocando una stanca partita, e con una posta insignificante. Ed ecco la piazza di A., sempre uguale e magnifica, sempre sorvegliata dal solito maggiore che sta sulla soglia della sua baracca, non sapendo come svagarsi in attesa della notte che lo porterà ormai alla casa delle due ragazze. Quando mi vide, un sorriso furbo gli tese le labbra: “Lei scappò, l’altra volta”. Non sapeva cosa fare e volle seguirci. Perché quel personaggio dovevo sempre trovarmelo tra i piedi, e sempre la sua voce mi colpiva sgradevolmente? Non potevo sfuggirgli, ormai, mi prendeva sottobraccio. Il suo volto era cordiale, e sempre più mi stupivo di trovarlo repugnante, non ambiguo, ma offuscato da sottintesi che mi sfuggivano tuttora; e perciò evitavo il suo sguardo, carico per me di un mistero irrisorio e forse insolubile. Era un uomo alto e grosso, felice di vivere, di stappare bottiglie e di aprire con un gesto largo la scatola delle sigarette, felice di parlare e di ascoltarmi, disposto a perdonarmi il mio giovanile ottimismo. Disse subito che aveva con me un debito: “Grazie di avermi fatto conoscere Rahabat”.
“E chi è Rahabat” chiesi.
“Non ricorda?” Il maggiore accennò a curve immaginarie e, pensoso, aggiunse che era una creatura eccezionale: non aveva il senso del tempo. Socchiuse un po’ gli occhi, forse questa frase l’aveva già udita, ma ormai era sua: e cominciò a descrivermi le grazie di Rahabat. Lo detestavo. Anzi: invidiavo la sua felicità, la sicurezza della sua esistenza. Lo stimavo capace di difendere la sua baracca, le sue casse, il suo denaro, i suoi affari, poiché era chiaro che facesse affari. Dovevo imitarlo, se non volevo soccombere, dovevo considerare il mondo e gli uomini coalizzati contro di me e batterli con l’astuzia. Era convinto che l’ammirassi, ed era vero. Ammiravo i suoi difetti, che forse mi sarebbero stati necessari, questo sentivo, per sopravvivere.
Ora parlava con la sua voce di militare che usa il grado per imporre anche le sue opinioni su ogni materia: e aveva un’opinione su ogni materia. Odiava quella terra, odiava gli abitanti (eccetto Rahabat), odiava tutto. O, meglio, disprezzava tutto. Poiché i suoi argomenti mi infastidivano, presi a contraddirlo.
Mi ascoltò gravemente (detestavo quella sua gravità fittizia), e infine scosse la testa ridendo. “Ottimista, “ disse “ma guardi dunque questa gente. Le sembra civile?” Risposi che avevano delle qualità che nei paesi civili si vanno perdendo ed egli, pronto, sorridendo con ironia, mimando come un cattivo attore. “Vuol dirmi quali?”
Dissi che queste qualità mi sembravano essere la fede, la perseveranza, e le altre qualità delle creature semplici. E poi, la sobrietà, il coraggio. Erano restati cristiani.
“Anch’io sono cristiano” osservò il maggiore stupito.
“E non hanno” seguitai “quelle ambizioni che rendono da noi gretta e infelice la vita di un uomo medio. Non lottano per un’esistenza fittizia. Non lottano per il cassetto.”
“Non hanno un soldo” aggiunse il sottotenente celiando “e non conoscono le tristezze del risparmio.”
“Giusto. E probabilmente,” conclusi “se non fossimo venuti non avrebbero mai sospettato che si può condurre una vita meno difficile, a patto di perdere le loro qualità e di acquistare i nostri difetti.”
“Cosicché leì ama questa gente?” chiese il maggiore. Pensai a Mariam e non risposi, mi sembrava superfluo. Mi finsi annoiato.
“Hanno una saggia riverenza per la teoria del minimo sforzo” disse il sottotenente. Mi ricordano la gente del mio paese. Ma qui c’è il vantaggio che cantano meno.”
Il maggiore rise e, con improvvisa indulgenza, sparò la cartuccia che aveva tenuto in serbo: “C’est la faute à Jean Jacques” disse, e la pronuncia fini di indispettirmi. Poi aggiunse: “Un paese che non aveva strade”.
“Nemmeno incidenti automobilistici” disse pronto il sottotenente. In quell’attimo sentii che queste parole acquistavano la gravità delle frasi già udite, o che udremo, legate a un fatto ancora indistinto nella memoria. “Perché” pensai “queste parole mi turbano?” Ma il sottotenente aggiunse: “Del resto ha le sue scorciatoie”. Quindi accese un altro sigaro. Sentivo di detestare anche lui e i suoi sigari che richiedevano quelle attente cure, e le sue risposte.
Parlando, eravamo arrivati davanti alla chiesa e il maggiore ci stava indicando le due baracche a veranda, vicino all’ingresso della chiesa, e diceva che quello era l’ospedale, e ironicamente ci pregava di ammirarlo. Guardai le due baracche e chiesi se gli ammalati vivevano lì. “Certo,” rispose il maggiore che si faceva magnanimo “vivono lì non conoscendo le tristezze del risparmio.”
Cominciavo a non sentirmi bene, era forse la malinconia della sera, e chiesi: “Vivono di elemosina?” ma conoscevo la risposta. E guardavo le baracche, guardavo quegli uomini ammucchiati come bestie, immersi nella loro disperata indolenza.
“Certo” ripeté il maggiore. Il sottotenente aggiunse: “La povertà non ha confini, evidentemente. Ecco un popolo di mendicanti che fa l’elemosina ai suoi poveri”. E rise. Volevo andarmene, ma ero irresistibilmente attratto ad avvicinarmi alle baracche; non volevo però staccarmi dai due ufficiali che in quel momento mi davano la certezza di una fraterna protezione. Vedendo che proseguivano, li raggiunsi, ma non sentivo i loro discorsi, che mi arrivavano confusi. Una perfida curiosità mi trascinava verso il cancello, e la piazza mi appariva molto più vasta. Cosa dicevano i due ufficiali, perché ridevano, di chi ridevano? Volevo anch’io partecipare, sentirmi vivo con loro, affermare la mia esistenza. “Mi lasciano indietro” pensai. Cosa dicevano?
Si salutavano soltanto. Il maggiore si allontanò e lo vidi salire su un camion che s’era in quel momento fermato davanti alla sua baracca. Dovetti frenarmi per non raggiungerlo, per non raggiungere quell’uomo dal volto cordiale, anche se offuscato da sottintesi che mi sfuggivano o che non volevo approfondire. Si volse, ci fece un cenno con la mano mentre saliva sul camion: e io non risposi. “Andiamo,” dissi al sottotenente “visitiamo la chiesa”.
Dovevamo passare davanti alle baracche e il mio sguardo indugiò sui miserabili che vi giacevano. Una tremenda rassegnazione era calata sui loro volti. Giovani e vecchi, mescolati, incapaci di lamentarsi (soltanto la notte, lo sapevo bene, riusciva a sciogliere le loro lagrime), incapaci di trovare riposo. Si muovevano in quel breve spazio come larve scacciate da un vecchio deposito, urtandosi, lasciando cadere sul pavimento le loro immonde scodelle e spiando con ansia i passanti. Ma nessuno si fermava e sulla piazza il passeggio delle donne dirette alla cisterna proseguiva tranquillo. Là, nell’osteria, la donna vestita di rosa serviva i silenziosi clienti.
Il sottotenente mi precedeva di qualche passo, arrivammo sulla soglia della chiesa dopo aver attraversato un cortile ornato di grandi eucalyptus. Strano come improvvisamente fosse scesa la sera. Non entrammo nella chiesa, attratti dalla pace di quel cortile dove vagavano, come assorte nella meditazione, alcune donne. Forse l’esperienza è nel capire il valore di certe parole, che la vita ci rivela lentamente e a volte non invano. Davanti a quella calma visione seppi le parole che radunavano quelle ombre attorno alla chiesa, come in un limbo già toccato dalla grazia. Tra le ombre scure degli alberi, le ombre chiare dei fedeli. E, sopra, il cielo. Un cielo grave e nitido, di un profondo viola, più vicino di quanto si immagini, poiché là il cielo diventava un’opinione e quelle ombre l’avevano certo nel cuore, come già lo sentivo io. Pensai a Mariam e volevo andarmene. Sarei tornato all’accampamento.
“Che belle ragazze” disse il sottotenente, e mi indicò due ragazze che stavano in piedi, appoggiate a un albero. Parlavano quetamente e ci fermammo a osservarle. “Guarda le vesti. Sono candide. Che eleganza. “
Non vedevo bene, perché la sera scendeva improvvisamente. “Avviciniamoci” dissi, preso da un’ansia che non potevo dissimulare. Traversai il cortile e mi fermai a pochi passi dalle due giovani. Vedendosi osservate, si volsero. Mi ricordavano Mariam, non capivo perché, ma pensai che era certo un tranello della mia già provata immaginazione. “Vedrai Mariam dappertutto e sarebbe ora di smetterla” dissi. Mi ricordavano, tuttavia, Mariam. C’era nei loro volti la stessa grave bellezza, ma velata da secoli di oscurità, le stesse acque profonde in cui m’ero tuffato per un attimo e che non desideravo rivedere. Mi guardavano silenziose, senza sorridere e vedevo che il sottotenente indugiava a osservare la facciata della chiesa, come improvvisamente attirato da quell’architettura. “È un’architettura molto semplice” pensavo. Quando salutai, le due giovani risposero con un cenno del capo e sorrisero. Chiamai allora il sottotenente. “Chiedi a queste fanciulle se hanno una casa” dissi.
“Certo che l’hanno.” Poi aggiunse: “E sarà eterna, la migliore di tutte”. Quindi tradusse la mia domanda alle due ragazze, e quelle fecero un cenno, volendo dire di sì, e sorrisero ancora, guardandoci. “Povero limbo” pensai. Ancora rammentai Mariam, in quelle ragazze c’era la stessa malinconia che avevo scoperto nei suoi occhi e nel suo sonno.
“Adesso che cosa vuoi che chieda? Che ci invitino?” Sorrisi. “È una buona idea” dissi e pensai che tutto è molto più semplice di quanto si immagina.
Il sottotenente parlò a lungo con le ragazze, e queste scuotevano il capo sorridendo, ma il loro sorriso era così diverso da quello che mi aspettavo, che ne ebbi uno sgomento improvviso. Perché sorridono invece di precipitarsi a indicarci la strada? Perché scuotono la testa?
“Niente da fare” disse il sottotenente. In quello stesso istante, come per mitigare il loro rifiuto, le due ragazze porsero le mani verso di noi.
Erano mani già divorate da piaghe orrende. Quelle le ragioni del loro rifiuto. Così stettero, serie, come bambine che porgono le mani perché si veda che sono pulite.
Il sottotenente guardò le mani, anch’io le guardavo, e mi si volse, con un sorriso che voleva certo mascherare il suo turbamento: “Lebbra” disse a bassa voce. Le due ragazze lasciarono ricadere le mani e ci seguirono con lo sguardo finché non ebbimo oltrepassato il cancello.
Perché ora le dita andavano al dorso della mano? “Non è possibile” dicevo a me stesso, ma intanto mi accorgevo di camminare senza vedere nulla. E sentivo la gola secca, e un sudore scendere lungo la schiena. “Non è possibile” ma intanto quelle mani erano ancora davanti ai miei occhi.
“Fermiamoci” dissi. Ci sedemmo sui gradini della baracca del telefono. Due allegri soldati insegnavano a un bimbo ad andare in bicicletta, più per divertirsi loro che per insegnare qualcosa al bimbo. Vedevo quella bicicletta tagliare la strada, venirmi incontro, deviare, ritornare, udivo le parole dei soldati, le grida del bimbo.
E allora scacciai quell’idea molesta, riversandone la colpa sull’inquietudine dei giorni passati e sullo spettacolo della piazza che già si andava chiudendo come un fiore e ci inghiottiva nella sua struggente tristezza: perché il giorno laggiù moriva davvero e la parola domani era la più inutile delle ipotesi. Non si accendevano lampade, né il passeggio infittiva, né le scritte luminose chiamavano la folla nei caffè, nelle strade, nei teatri. Pensavo alla luce delle nostre strade, alla pioggia che la moltiplica, alle fontane, ai giornalai che strillano l’ultima edizione, alle automobili che vi sfioravano e al sorriso che si coglie di colpo negli specchi di una vetrina. “Non metterti in testa sciocche idee,” conclusi “la tua mano guarirà e non ha niente a che spartire con quelle mani.”
“Vuoi fumare?” disse il sottotenente e mi porse la sigaretta, e mentre l’accendevo mi resse il braccio, delicatamente. Incapace di sostenere quel silenzio, dissi: “Povere ragazze” e il sottotenente ripeté le mie parole. Poi disse: “Se tornassimo tra quarant’anni, le troveremmo ancora vicino a quella pianta. Le troveremmo invecchiate, spaventose, a pezzi, ma ce le troveremmo”.
Gli chiesi se il cortile era un lebbrosario. Ma il sottotenente tardava a rispondere come se la conversazione gli riuscisse estremamente penosa. Evitava di guardarmi, o forse non poteva, perché eravamo seduti sullo stesso scalino e avrebbe dovuto volgere la testa. “Non c’è lebbrosario. Stanno lì. Hanno almeno il conforto della religione. Pensa, la chiesa a due passi.”
“Comunque, è un conforto” dissi. Tacemmo ed ero meravigliato che la vita nella piazza seguitasse. L’ostessa rideva persino. “ Io mi sparerei” disse il sottotenente a bassa voce.
“Anch’io.” Ma il sottotenente scuoteva la testa e prima di parlare accese il sigaro, sciupando molti fiammiferi. “Siamo abituati alla speranza.”
“Ma in questi casi la speranza è inutile” dissi. Ora mi sentivo calmo, avevo fugato ogni angoscia e toccavo la mano, lieto che non mi dolesse. Dovevo tornare al campo, forse era arrivato il camion della posta.
“Proprio inutile. Qualcuno guarisce e dopo dieci anni è daccapo” disse il sottotenente.
“Allora bisogna trovare la forza di spararsi” conclusi. Il sottotenente accennò di sì col capo, poi disse che non vedeva l’ora di tornare in Italia. “Quel maggiore imbottito di luoghi comuni ha ragione. È, troppo triste questo paese. Troppo triste. Se in una terra nasce la iena ci deve essere qualcosa di guasto.”
“Sì, ci dev’essere qualcosa di guasto” ripetei. E questo qualcosa già lo custodivo nel più profondo dei miei pensieri, nessuno avrebbe mai capito, nemmeno Lei.
“Non vedo l’ora di andarmene” continuò il sottotenente “e di fare ciò che facevo una volta. Anche le sciocchezze, soprattutto le sciocchezze. E non più sopportare il giudizio di questa terra, degli alberi, degli uomini, tutti invecchiati nella loro sonnolenza.”
“Hai ragione” dissi. Ora dovevo tornare al campo, era forse arrivata posta nel pomeriggio.
E la piazza stava sempre davanti a noi, quella piazza tetra e meravigliosa, anch’essa decaduta nella sonnolenza dei secoli. Cosa stavano dicendosi, adesso, nel cortile della chiesa, le due ragazze? Avremmo mai dimenticato i loro sguardi, quando ci eravamo allontanati con la cautela di chi non vuol essere coinvolto? E avrei dimenticato le loro mani? Le avevano mostrate come se non fossero le loro mani, ma volessero soltanto accusare qualcuno. (Ma stavano nel cortile della chiesa, perché speravano, avrebbero sempre sperato.) Eppure, eccole là, quattro mani mangiate, con qualche dito rientrato nel palmo e quelle cupe escrescenze di un rosso maledetto. Ma sì, guardate pure, erano le nostre mani, e sarà sempre peggio, cadranno addirittura, e allora qualcuno dovrà imboccarci il cibo, e lo farà a malincuore, con la gola chiusa per lo schifo, per meritarsi questo cielo grave e nitido che è sopra di noi. E altra gente resterà attratta dalla nostra bellezza e subito volterà le spalle sorridendo per l’improvviso, piacevole, egoistico terrore di quella vista, felice di poter varcare il cancello; anche se sulla nuca sentirà i nostri sguardi.
“Perché” chiesi “quelle donne vivono così libere?”
Il sottotenente si volse, per la prima volta, verso di me. “Tutti sanno che sono lebbrose,” disse “anch’io lo sapevo.”
“Ma non si vede affatto. E può capitare che qualcuno le avvicini” osservai. E certo qualcuno avrebbe potuto avvicinarle, se non altro per rendere omaggio alla lezione di quei loro occhi che assorbivano il colore della sera. Ma il sottotenente daccapo accendeva il suo sigaro. E non mi guardava. Poi disse: “No, non succede”. E siccome io tacevo, ripeté: “No, questo non succede, non può succedere. Sono intoccabili”.
“Intoccabili?” Ed ebbi la forza di ridere.
“Sì, intoccabili. Hanno un segno che tutti conoscono e allora nessuno si avvicina troppo. Eccetto la speranza.” Poi aggiunse: “Anzi, nessuno deve avvicinarsi”.
La sera cedeva alla notte e, puntuale come un pipistrello, la malinconia ritornava, stavolta senza scampo. Avevo paura di chiedere, credevo già di avere indovinato. Mi feci forza e, dando alla mia domanda il tono più semplice che mi fu possibile, chiesi qual era questo segno. Il sottotenente si alzò per andarsene. “È lo stesso segno dei preti” disse. “Una specie di turbante bianco. Ha un nome preciso, ma non lo ricordo.” E aggiunse: “Io torno al campo, e tu?”
“Anch’io” risposi.
Fatti pochi passi mi fermai e dissi al sottotenente che avevo dimenticato di comprare qualcosa. “Se vuoi,” rispose “ti aspetto.”
Non occorreva, forse avrei dovuto trattenermi. Allora, se ne andò e lo vidi allontanarsi col suo passo un po’ strascicato, da persona ormai abituata a passeggiare per strade calde. Se ne andava senza fretta e rifiutavo di immaginarmi i suoi pensieri. Avrei voluto richiamarlo, la solitudine ora mi pesava, ma se l’avessi chiamato dai miei occhi avrebbe capito qualcosa, e forse già sapeva qualcosa. Vidi che si allontanava e sentii di perdere l’unica persona capace di confortarmi, capivo adesso che i suoi silenzi nascevano da una calma che io avevo perduta, erano i silenzi di un cuore sensibile. E la sua cinica noia era soltanto paura di cedere.
Salii sino alla cisterna e lì stetti a guardare le donne che riempivano le loro latte d’acqua, ma la sera allontanava anche le ultime ritardatarie e ben presto mi trovai solo. Non sapevo cos’avrei fatto, fu quasi senza volerlo che mi ritrovai dinanzi alla chiesa, e poi nel cortile. Cercavo le due ragazze, vidi che s’erano sedute ai piedi del loro albero e mangiavano in silenzio. Stavano là come due macabre gitanti dimenticate dalla comitiva, con la notte che incombeva alle loro spalle, rassegnate a quel buio, parlando a bassa voce. I loro turbanti facevano una sola macchia grigia.
Mi riconobbero e tacquero di colpo. Soltanto una di esse, quella che avevo più guardata, mi accennò all’amica, fissando gli occhi nel buio e sorrise appena; poi entrambe ripresero a mangiare, senza fretta, né sentivano fastidio per la mia presenza. Stavo a pochi passi da loro, in piedi. “Buona sera” dissi. Mi risposero insieme, a bassa voce, e risero.
Cos’altro potevo dire? Mi piegai sulle ginocchia, sarei rimasto lì. Le donne adesso ridevano sommessamente, proprio come due ragazze che s’animano vedendosi osservate. Qualcosa non era ancora morto in loro e sarebbe sopravvissuto allo sfacelo del corpo per molto tempo. Colei che io più guardavo si acconciò anzi la veste, con rapida civetteria, e ancora per un attimo vidi quella mano.
Intanto il custode della chiesa stava chiudendo la porta e tra poco avrebbe chiuso il cancello del cortile. Quando si diresse verso il cancello con la grossa chiave tra le mani, sgomento al pensiero che potessi restar chiuso là dentro, e che il vecchio custode avesse potuto impedirmi di uscire, mi levai di scatto e raggiunsi il cancello. Il vecchio gridò qualcosa, e la sua voce aspra e gutturale mi impedì di volgermi. Rifeci la strada verso l’accampamento.
I soldati cantavano. La notte era troppo bella perché tacessero. Si parlava in quei giorni di un nuovo trasferimento e, fugata l’apprensione di una lunga permanenza laggiù, passavano le ore del riposo ad anticipare le gioie del ritorno. Esse si presentavano così vivacemente alla loro immaginazione che dalle tende uscivano a tratti grida e scoppi di risa, come non sentivo da mesi, ormai.
Mi chiusi nella tenda e tolsi la fascia di garza alla mano. Forse c’era un peggioramento. La mano era tumefatta e, toccandola, percepivo appena un lontano dolore, come una voce che venisse da un carcere profondo. “Ho stretto troppo la fascia,” pensai “e la mano è peggiorata, non posso accettare nessun’altra ipotesi. Ho i nervi logorati e vedo troppo nero.” Poi, mi ricordai delle macchie sul ventre e sulle braccia. Mi spogliai, le osservai a lungo, e sentii che la gola mi si chiudeva, ma non fui capace di singhiozzare. Stetti sulla branda, seminudo, al dolore subentrò una calma ancora più vuota di speranze. Ero solo, sarei rimasto solo per molti anni, sino alla fine.
Il pensiero tornava cocente a Mariam. Ricordai il suo corpo perfetto, così chiaro, animato da quel sangue denso. “Possibile?” dicevo. Eppure, anche le due ragazze sono belle. Cercavo di ricordare e sempre più lo sconforto mi assaliva. Ricordai la lotta sostenuta da Mariam, una lotta cortese alla quale lei stessa non aveva creduto, la sua subitanea rassegnazione, il furore del suo corpo che sapeva già di essere solo e mi aveva chiesto ciò che non avrebbe più avuto. Poi, quelle mani che stringevano e certo volevano dirmi l’orrore della sua solitudine, la tentazione di trascinarvi anche me. E poi, l’essersi rifiutata di accompagnarmi al ponte, l’aver voluto che dormissi nella boscaglia, lontano da chi avrebbe potuto avvisarmi. E infine, quel fazzoletto bianco.
E io gliel’avevo acconciato sul volto perché non vedesse che volevo ucciderla. M’ero stretta la sua immonda veste attorno alla mano ferita, perché il colpo della rivoltella fosse attutito. Avevo avuto rimorsi. “Ah ‘Mariam’ hai vinto tu, dicevo “io ti ho liberata di un peso e tu l’hai messo sulle mie spalle. È talmente uno scherzo riuscito che non vale arrabbiarsi. Accettiamolo sino in fondo.”
Poi, di colpo, balzavo in piedi, guardavo smarrito gli oggetti della tenda, la sorridente fotografia di Lei, ascoltavo le risa dei soldati, mi assaliva la disperazione e dovevo soffocare le urla nel cuscino, perché nessuno sentisse. Mordevo il cuscino e restavo bocconi sulla branda.
Presi la rivoltella e misi un colpo nella canna. “Io mi sparerei” aveva detto il sottotenente. Era l’unico consiglio che poteva darmi, anzi me l’aveva già dato, ed ora apprezzavo la forzata crudeltà delle sue parole, il disagio di quella conversazione e il consiglio a diffidare della Speranza. Aveva capito. Non avevo forse tremato davanti a quelle mani?
Passavo la rivoltella da una mano all’altra, sarebbe bastato premere appena il grilletto, mirare giusto, ma le dita si rifiutavano e la canna restava rivolta contro il mio petto, pronta ma anche indifferente. “Eppure,” dissi “devi uccidere una persona che sta per morire, che tra poco morirà, che è già morta. Che cosa sono queste parzialità?” Ma il riso si tramutava in singhiozzo e pensai che dovevo scrivere a Lei, almeno scriverle. Ogni volta strappavo il foglio, le parole non venivano. Ecco, non dovevo dirle nulla, così non avrebbe nemmeno provato un senso postumo di schifo per la mia persona.
Doveva essere un incidente: doveva succedere mentre pulivo la rivoltella. Presi allora dalla cassetta una bottiglia di petrolio e uno straccio e tolsi il caricatore, lasciando la pallottola nella canna. Sarebbe risultata chiara la mia imprudenza. Tutto era a posto. Ma, non c’erano molte cose da fare? Scriverle almeno l’ultima volta, una lettera come tutte le altre? Le avrei parlato del prossimo ritorno, o dello spostamento che si riteneva imminente, le avrei parlato dei pacchi ricevuti, chiesto altri libri. Questo potevo farlo.
Scrissi la lettera, fermandomi spesso perché il respiro mi si faceva affannoso: ma non riuscivo a piangere.
Quando l’ebbi scritta e riletta e l’ebbi messa nella busta, pensai che era una lettera toccata dalle mie mani. No, non potevo mandarla. E le altre, tutte le altre? Non era una buona ragione perché seguitassi a mandarne.
Bruciai la lettera e ripresi la rivoltella, ma stavo giocando con me stesso, sentivo che non avrei avuto la forza di premere il grilletto. E allora, al limite della disperazione, venne ciò che temevo: la speranza.
Giudicavo senza troppi elementi. La donna aveva, sì, il turbante ma stava lavandosi, se l’era acconciato per non bagnarsi i capelli. Non le avevo visto piaghe sul corpo. La sua ambigua resistenza? Voleva essere vinta, ecco tutto, per sentirsi meno colpevole. Ricordavo il suo riso, quando la notte le aveva tolto ogni rimorso.
Inoltre, dovevo prima consultare un medico, informarmi. E non potevo rinunciare alla licenza, unica via di scampo che mi restasse. In Italia avrei potuto curarmi meglio, e il giorno che non avessi avuto più speranze (l’avrei letto negli occhi di Lei), mi sarei ucciso. Sinceramente ucciso. Ma ora non potevo correre il rischio di essere trattenuto in qualche lugubre padiglione, dove niente funziona, e i campanelli suonano a vuoto e le risa delle infermiere corrono per i corridoi e si smorzano sulle soglie delle stanze. Restar qui ad aspettare che le dita si ritirino a una a una, e che poi si ritiri la mano, e poi il ventre si screpoli e la gola si squarci? Dovevo star calmo e tornare da Lei, tentare di tornarvi. C’era anche la probabilità che non fosse niente di grave e dovevo pur considerarla, quell’unica, lontana, luminosa probabilità. Avevo appena finito questi ragionamenti che la disperazione mi ripigliava daccapo, e daccapo dovevo soffocare le urla nel cuscino.
Stavo così bocconi, immerso in quell’angoscioso stordimento, ora fissando la fiamma della candela, ora le macchie sulla tenda, quando cominciai a sentire un lieve fiato.
Non era fetore, ma un quasi impercettibile fiato, che mi rammentava qualcosa, anche la stanza delle due ragazze, soprattutto la ragazza che avevo avuto accanto. Ma questo era un fiato tanto più insopportabile perché mi sembrava inesistente, un messaggio che io solo dovessi percepire. Era un messaggio di vittoria, un fiato baldanzoso, finalmente il grido di trionfo che sale dall’abisso! Annusavo la coperta, il cuscino, ancora stordito dal dolore, ma non riuscivo a fissare l’origine di quel fiato, né tutti gli elementi che lo componevano. C’era però l’odore delle tuberose in una stanza calda. Quest’odore lo sentivo nettamente, benché a intervalli. Poi, qualcosa che ricordava il pelo dei cani randagi, dei cuccioli randagi, e anche l’incenso: ma un incenso dolciastro, antico, tenace, misto di vainiglia, che poteva essere vinto solo dall’odore fresco della terra bagnata e smossa. Aveva piovuto ed era logico che la terra fosse bagnata, ma perché smossa? Accesi una sigaretta e, benché il fumo stagnasse nella tenda, veniva subito sopraffatto da quel fiato sempre più pesante e allegro. Vi si aggiungeva, adesso, l’odore dei gigli, l’odore che sprigiona dal vaso quando si cambia l’acqua ai gigli, non così chiaro, molto più subdolo, un odore che non rammentava la purezza dei gigli, ma piuttosto il cadavere del santo dei gigli. E non c’era forse l’odore della forra, il tiepido e insopportabile odore dei cespugli secchi su quella tomba? Erano cespugli secchi, mi dissi, non potevano spandere nessun odore. E perché, a rendere ancora più nefasta la pozione, questo sospetto di cacao?
Forse la piaga? L’annusai e al fiato si aggiunse la tintura di iodio, ma non era la piaga. No. Terra smossa, soprattutto, e con fiori che stanno marcendo, dimenticati là da amici pietosi, e appena umidi di nebbia. “Ah,” dissi “quest’è troppo, Mariam.”
Stappai una bottiglia di acqua di colonia e la sparsi sul letto e tra me ripetevo: “Mariam, quest’è troppo”.
Non era possibile resistere. Ora anche l’acqua di colonia si alleava a quel putrido miscuglio, e anche il tabacco, anche il petrolio, tutto. “Non ho cenato,” dissi “e lo stomaco mi tradisce.” Annusai ancora attorno e poiché la giubba mi sembrava fosse ormai intrisa di quell’odore, e forse ne era la sorgente, decisi di bruciarla.
L’aria fresca della notte mi rianimò, e anche il fuoco mi distrasse. Quando ritornai verso la tenda vidi un fagotto, il solito fagotto: Elias che dormiva accucciato tra i suoi sacchi. E aveva smosso la terra attorno alla tenda per non bagnarsi.” “Le tue stupide fantasie” dissi. Svegliai il bimbo e lo feci entrare nella tenda.
Salutava come sempre, sorridendo, ed ora vedevo nel suo sorriso la soddisfazione per lo scherzo perfettamente riuscito. Inspirai a lungo per placare l’ira che mi stava salendo agli occhi: “Siedi” dissi. Elias sedette come sempre composto, senza distogliere gli occhi dal mio viso, pronto al minimo cenno. Gli chiesi dov’era stato tutto quel tempo. “Da Johannes” rispose.
“Che fa il vecchio becchino? Prepara la fossa per me?” Avevo parlato semplicemente, ed Elias non poteva capire. Seguitò a sorridere, inclinando un poco la testa. “Ti domando cosa fa Johannes” ripetei.
“Niente” rispose. La mia domanda era davvero superflua. Cos’altro poteva fare quel vecchio se non vegliare i suoi morti e aspettare la morte? Ma poco importava Johannes, avevo chiamato Elias perché un’altra speranza voleva ora aggiungersi a tutte le mie speranze. Forse egli sapeva. “Senti, “ dissi “parlami di Mariam.”
Alzò le spalle, ma non rispose. “Tu hai detto che Mariam era giovane. Perché viveva al villaggio, invece di vivere qui, ad Asmara o a Gondar?”
“Non lo so.” Poi aggiunse: “Ma ora non vive al villaggio”.
“Forse viveva al villaggio perché era malata?” Il bimbo mi guardò a lungo corrucciato. Poi sorrise. “Non so” disse. Anche questa risposta mi parve preparata da tempo, da molto tempo. “Non hai sentito dire che fosse malata?” insistei.
“Non lo so.” C’era da cavargli poco, l’avevano mandato soltanto perché uno della congiura assistesse al trionfo. Mi sembrò di vedere Johannes e Mariam ridere alle sue risposte. “Tu non sai nulla” dissi. Egli sorrise, alzando le spalle, come sempre. E come sempre, poco dopo sentii il suo dolce respiro, lento come il respiro di Mariam. E quel fiato. “Dovrai abituartici” dissi. Mi distesi sulla branda, in una calma sempre più vuota.
Alla sveglia mi accorsi che la notte mi aveva placato. Lo stordimento cedeva a una serenità noncurante. Ero più calmo, mi sentivo pronto a tutto, era quella, dunque, la rassegnazione del condannato? Ora, dovevo sapere. Dovevo sapere e tornare in Italia. Respingevo con tutta l’anima l’idea di restare laggiù, niente avrebbe potuto trattenermi, neanche la certezza di una pronta guarigione, ipotesi assurda perché s’era appena all’inizio. Nessuno poi doveva capire qualcosa dal mio contegno, perciò quel giorno mi rasai con cura e indossai la divisa nuova, l’unica che mi fosse rimasta.
Chiamai l’attendente. “Da oggi,” gli dissi “desidero pensare da me alla tenda. Capito?” Non capì. Sorrise con aria d’intesa, forse pensava che volessi introdurci qualche donna, la notte, e tenerla nascosta.
Dovevo sapere. Passai davanti alla tenda del dottore, tentato di entrarvi, ma mi trattenni. Poteva riuscir male. Il dottore mi vide e gridò: “Come vanno i denti?”.
“Ottimamente” risposi. Ero calmo quando uscii dall’accampamento, diretto verso la città. Avevo rinnovato la fascia di garza alla mano, vi avevo aggiunto una benda del colore della camicia perché spiccasse meno. Camminavo a passi svelti.
La piazza a quell’ora era invasa dai mercanti. Girai a lungo tra le baracche, guardando la merce con l’occhio distratto e divertito del visitatore che non compra. Ma il mio scopo era un altro: dovevo sapere. Cercavo perciò una piaga che somigliasse alla mia. Tra le tante piaghe di quegli abissini, ne avrei trovato una simile alla mia, di questo ero certo. Se avessi trovato quella piaga in una persona del mercato, il cuore sarebbe esploso di felicità, sarei corso dal medico: “Curami questa porcheria” avrei detto. Cercavo, dunque, le piaghe, ma non era facile trovarne. Eppure ogni tanto venivano indigeni davanti alla tenda del dottore, a farsi medicare, e l’infermiere medicava, urlando in dialetto, scontento di dover lavorare per quegli intrusi e soddisfatto di farlo, ripagato da quei profondi saluti, da quei sorrisi di fraterna umiltà.
Erano piaghe molto diverse. Dovevo ammettere che erano piaghe molto diverse. Più larghe della mia, sì, quasi tutte più larghe, ma dall’aspetto normale, di piaga che vuole un po’di tempo per guarire. E guarirà, se appena la puliranno ogni giorno. C’era un bimbo con una piaga alla caviglia. Giusto, va a piedi nudi, la polvere finirà per peggiorarla, a meno che non sia necessaria per guarirla. Niente piaghe alle mani.
Il mercante mi guardava intimorito, volevo forse sequestrargli quella merce di frodo, comprata alla Sussistenza, o fatta scivolare lì dal maggiore?
“Tu, fai vedere le mani.” Mi mostrò le mani, e le guardò anch’egli a lungo, come se le vedesse per la prima volta e vi scoprisse qualcosa di nuovo e impensato. Erano mani sporche, ma sane. Erano mani nodose, più sporche dei piedi, che talvolta finivano a loro insaputa in qualche pozza d’acqua, ma sane. Eppure, quel mercante aveva una piaga al polpaccio.
La speranza stava svanendo: non avrei saputo. Ma non abbandonai la piazza, cercai ancora tra le baracche, mi avvicinai ai crocchi, mi spinsi verso l’ospedale. No, erano malati “diversi”. Malati anche loro, ma la gente si accostava. Una giovane donna aveva portato da mangiare a un vecchio e stava seduta sull’orlo della baracca, aspettando. Dondolava il piede, e mi sorrise. Sul piede aveva una piaga. Ma era una piaga sana, diversa. Vedendo che la osservavo la osservò anche lei, come si osserva un monile.
Perché non ritornavo dalle due donne, perché non chiedevo che mi mostrassero ancora una volta le mani? Mi sarei certo risparmiato ogni fatica, ma forse a quell’ora le donne non c’erano. Non potevano star lì tutto il santo giorno ad aspettarmi! Non c’erano di sicuro. Eppoi, lasciamole in pace, le donne. Perché offenderle con la mia malsana curiosità? Rammentai il disagio dei giorni che a scuola esponevano i quadri degli esami. Preferivo non andarci, preferivo aspettare che i compagni, passando, mi dicessero col loro contegno cos’era successo. Dai loro volti volevo indovinare. Ma le donne non c’erano a quell’ora nel cortile, dovevano recarvisi soltanto la sera. Per le preghiere, immagino.
Rifeci il giro della piazza e salii alla cisterna. Anche lì molte piaghe, ma sempre sui piedi. Spaventosamente aperte, o già fermate da una crosta tenace, ma piaghe date dal sole, dal caldo, dalla cattiva nutrizione, dal camminare a piedi nudi. Nessuno aveva piaghe sulle mani.
All’osteria, quando vi entrai, la grossa etiope vestita di rosa mi guardò con occhi severi. Cosa venivo a fare in quel posto? Volevo bere birra acida in quelle coppe? Io, un “signore”? “Buon giorno, tenente” disse l’etiope vestita di rosa.
“Buon giorno” risposi. Aveva un volto largo, chiaro, generoso e anche le mani erano chiare, ben fatte. Mi invitò a sedere, sorrisi e feci cenno che dovevo andarmene. Invece stetti fermo nel centro della stanza, guardando con le palme aperte. Nemmeno una piaga.
Vicino alla baracca del telefono c’erano mercanti di profumi, di tappeti falsi e di ombrelli, di stampe arabe, che illustravano le gesta dei crociati e dei musulmani. I crociati erano brutti e lerci, i musulmani aitanti e benvestiti. Il mercante non aveva piaghe, io avevo una piaga. E quel fiato quasi impercettibile era certamente l’effluvio dei profumi, di quei pessimi, dolciastri profumi che il mercante esponeva al sole.
La piazza si fece deserta, poi ancora si rianimò. Presi la strada opposta all’accampamento e il sentiero che portava al boschetto di eucalyptus. Il dottore era seduto nella sua sedia a sdraio e, poco distante, il soldato si preparava ad andarsene.
Quando mi accostai, il dottore si volse, ma rispose stancamente al mio saluto. Non si mostrò affatto lieto di vedermi, né io mi aspettavo diversa accoglienza, lo conoscevo per fama: era uno di quei pigri che amano la solitudine e sanno difenderla. S’era messo lì, lontano da tutti, perché l’Africa gli aveva sviluppato un solo timore: quello di essere disturbato. Sfidava ogni pericolo pur di alimentare la sua dolcissima noia, leggeva giornali vecchi di un mese, forse non aspettava nemmeno il giorno del ritorno, tutto doveva essergli indifferente. La mia visita, invece, lo preoccupava. Non sarei restato molto, il tempo di sapere, di chiedergli un libro. Ma bisognava trovare un pretesto. Quando mi consegnò il tubetto di aspirina, disse che avrei dovuto chiederlo all’infermeria del mio reparto. Gli risposi che il mio reparto non era in quella zona e, poiché taceva sempre, guardando il giornale e già pentito di avermi offerto un motivo di conversazione, aggiunsi: “Il mio reparto è oltre Gondar. Dovrei camminare una settimana” e feci seguire una risatina.
Non gliene importava nulla, voleva essere lasciato in pace. E io dovevo parlare. “Posso sedermi?” chiesi.
Non rispose, accennò a uno sgabello, che dovetti liberare delle cianfrusaglie che lo occupavano. Ancora lo stesso disordine della prima volta, se si toglie la motocicletta ormai a posto: mancavano solo le ruote: “Permetta che mi presenti” e dissi un nome a caso; ma egli non l’intese egualmente e pensai che era proprio l’uomo che cercavo. Però dovevo trovare un pretesto.
Prima di andarsene, il soldato venne ciondoloni a chiedere al dottore se aveva bisogno di nulla. Il dottore fece un gesto per dire di no; e invece cominciò un lungo e minuzioso discorso, che il soldato doveva ormai conoscere a memoria: commissioni da fare, certe lettere da imbucare, chiedere questo al comando e quello all’ospedale. Ricominciava sempre daccapo, spiegando con calma, ingarbugliandosi, contraddicendosi, e il soldato stava a due passi facendo cenno di sì con la testa: non avrebbe fatto nulla. Infine, il dottore lo salutò seccamente e si rimise a leggere il giornale.
Sarei riuscito a rompere il silenzio? “Si sta bene qui” dissi. Rispose che si stava bene, ripeteva le mie parole, annoiato di doverne cercare altre: e, se non trovavo un argomento, la conversazione sarebbe caduta. Dovevo trovare un argomento. “Qui si potrebbe dipingere” dissi. Non rispose. “O si potrebbe anche scrivere, il luogo ideale.” Guardava il suo foglio senza nemmeno sollevare gli occhi verso di me e, quando gli dissi: “ Immagino che lei non ami la caccia”, rispose un secco: “No” che voleva essere la recisa conclusione del dialogo.
Ma non potevo andarmene. “Lei è il primario dell’ospedale?” chiesi. Non ottenendo risposta (si rifiutava, voleva ignorarmi e spingeva lo sguardo verso la strada, quasi meditasse la fuga), aggiunsi se potevo dare un’occhiata ai suoi giornali, erano mesi che non ne vedevo uno. Leggendo avrei potuto almeno giustificare la mia sosta. Sfogliai il primo giornale che mi capitò, era un foglio umoristico. Allora dissi che mi sembrava di pessimo gusto offendere così il nemico.
Dopo un attimo, vidi che il dottore mi stava scrutando attraverso le lenti colorate. Serrava le labbra, tratteneva il respiro e i suoi occhi mi scrutavano da capo a piedi, improvvisamente vivaci. Su quel suo corpo mastodontico la piccola testa sembrava essersi illuminata. Forse voleva scacciarmi. Stavo per levarmi in piedi, quando il dottore esalò di colpo tutta l’aria e disse con calcolata lentezza: “Sì, proprio di pessimo gusto”.
Aveva risposto, ma ora stava per immergersi nella lettura del suo giornale, come l’ippopotamo si rituffa nel suo brodo dopo l’offerta del visitatore. Prontissimo esclamai che, in fin dei conti, avevano difeso la loro terra. Accennò di sì. Dietro le lenti gli vedevo gli occhi già socchiusi per la noia di quello sforzo, una leggera smorfia gli dilatava la bocca, soffiò ancora e disse: “Questione di stile”.
“Proprio” dissi vivacemente.
E, sentendolo sospirare, aggiunsi che sarei stato felice di sentirlo parlare sull’argomento. Si passò una mano sulla fronte e parlò, strascicando le parole, pensandole, a volte esclamando. Dimenticai persino il motivo della mia visita e, quando mi chiese che cosa facevo “a casa”, nella sua voce sentii un confortante accento di cortesia. Risposi che non facevo nulla. Ma subito rammentai che dovevo prendere la palla al balzo e aggiunsi che, una volta tornato in Italia, avevo intenzione di mettermi a scrivere. Avrei scritto di quei luoghi e di quell’esperienza. “Sto anzi scrivendo,” dissi “sto scrivendo ...”
Non mi ascoltava più. S’era distratto e la sua testa sembrava essersi rimpicciolita o soltanto affogata nel collo. A voce più alta, già spazientito, ripetei: “Sto anzi scrivendo un lungo racconto”. E accennai la trama: un ingegnere viene quaggiù e si ammala. Gli avevano descritto il paese come una fonte di ricchezze e lui vi trova soltanto la morte.
Disse cortesemente che era un bel tema. Incoraggiato, ripresi: “Pensavo che lei potrebbe consigliarmi circa la malattia da dare all’ingegnere. Una malattia tropicale”. Qui tacqui, dovetti inspirare a lungo, poi dissi: “Forse, la lebbra?”.
Il dottore storse la bocca: “Sì” disse. Non sembrava convinto. Sentivo il cuore pulsarmi e speravo che il dottore non percepisse quei tonfi, come io nettamente li percepivo. Gli chiesi, allora, se aveva un libro da prestarmi sull’argomento.
“Credo di aver qualcosa” ma non si mosse. Restò a osservarmi e ancora spinse lo sguardo verso la strada, meditando una fuga impossibile. Forse non s’era mai levato da quella sedia a sdraio. Mi ascoltava con un orecchio e si abbandonava sulla tela, rilassandosi. Pensai che la sedia avrebbe ceduto. “Io immagino,” dissi “che il mio ingegnere si infetti dormendo nel letto di un indigeno. Può accadere?”
Accennò all’ereditarietà e al contagio. Tutti ammettevano il contagio. Sorridendo (un sorriso infantile che accentuava la sua corpulenza), aggiunse: “ Si diventa lebbrosi come si diventa tiranni: ereditarietà o contagio”.
Riuscii a ridere. “E basterà che il mio ingegnere dorma una notte nella casa di un indigeno?” Lo dissi con voce così calma che ne fui meravigliato. Ormai distratto, rispose che avrebbe potuto dirmelo visitando prima l’indigeno. Con un tremolio nella voce, aggiunse: “O il suo ingegnere”.
Adesso mi guardava con altri occhi, c’era qualcosa nel suo sguardo che mi inquietava. Forse ironia. Perciò la sua voce aveva avuto quel gorgoglìo? Davvero doveva credere alla storia dell’ingegnere? Restai un attimo incerto. Suvvia, s’era così blandamente riaffondato nella sua sedia a sdraio! Non chiedeva niente all’Africa, se non di essere lasciato in pace. Infine disse che, se volevo il libro, sarebbe andato a prenderlo. Pesantemente entrò nella baracca e ne uscì poco dopo tenendo tra le mani uno smilzo libretto, ma invece di darmelo, sedette, cominciò a sfogliarlo e un lungo silenzio seguì. Ora mi rimproveravo la mia leggerezza. Lentamente, staccai dalla giubba il distintivo della divisione. Non si accorse di nulla, leggeva, s’era persino dimenticato di me. “ Il suo ingegnere” disse improvvisamente “ha dormito nella casa di un indigeno affetto da lebbra?”
Sobbalzai. “Sì” risposi, pronto come un testimonio.
“Ha dormito nel letto del malato?” (Perché parlava come se il fatto fosse realmente accaduto? Si trattava di una finzione, di un racconto.) Risposi con un cenno. “Mi sembra ingenuo,” continuò “far dormire un ingegnere nel letto di un abissino.”
Sempre più mi rimproveravo di aver scelto quel pretesto. Tacevo, aspettando che si decidesse a consegnarmi il libro. Ma insisteva: “Lei ha mai visto un letto abissino?”.
Poiché pazientemente gli risposi che ne avevo visti, chiese se ritenevo che al mondo esistesse un ingegnere disposto a dormirvi.
Forse voleva soltanto esercitare una critica verista. “È un’ipotesi letteraria” dissi. Ne conveniva, ma poiché s’era nel campo delle ipotesi, tanto valeva far dormire l’ingegnere nella casa di una indigena. Gli feci osservare che poteva sembrare un pretesto abusato. Sorrise e disse che era per lo meno il più plausibile. “Sì, il più plausibile” ripeté.
Insistetti, allora, sul tema di un ingegnere che va in una terra promessa e vi trova soltanto la morte. Non importava come. Era una questione secondaria. Parlavo, cercando di placare l’ansia; ora avrei voluto andarmene, ma una mia fuga avrebbe fatto nascere o confermare i suoi sospetti. E intanto il dottore si lisciava i baffi, sereno; poi, con voce improvvisamente grave, disse che “l’ingegnere” (e qui mi parve che calcasse le parole, per significare che stava al mio giuoco ma che l’avrebbe dominato), che “l’ingegnere” sarebbe morto dopo molto tempo. Si mise a sfogliare il libretto, ma non trovava il paragrafo che voleva citare, o forse fingeva di non trovarlo. Soltanto dopo un interminabile silenzio (si leccava le dita per sfogliare le pagine e ricominciava sempre daccapo), vi riuscì. “Qui dice che malati gravissimi possono mantenersi in vita per venti, trenta, sessanta anni, sino a che una malattia ricorrente od occasionale non ponga fine alle loro sofferenze.” Ancora si lisciò i baffi. “Quindi,” concluse “il suo ingegnere vivrà a lungo in questa terra promessa. Non avendo saputo rinunciare all’ospitalità indigena per una notte, l’accetterà suo malgrado per sempre.” Poi continuò sorridendo: “A meno che il suo ingegnere non si decida a seguire un vecchio rito indigeno”.
Mi assalì una sciocca speranza e, troppo in fretta, chiesi: “Quale?”.
“Ecco,” rispose “il suo ingegnere dovrebbe bagnarsi ogni anno con il sangue di un neonato. Una perfetta allegoria, che risolverebbe positivamente il suo racconto.”
Mi ero levato in piedi e guardavo la strada, incapace di frenare il tremito delle gambe. Quando finii di parlare (non ricordo che cosa dissi), il dottore raccolse da terra una borsa di tabacco e cominciò ad arrotolarsi una sigaretta. Guardò la cartina controluce, la spiegazzò, ne scelse un’altra, l’affondò nella borsa e la ritrasse piena di tabacco biondo. Non si decideva a proseguire, come afferrato da un improvviso pensiero. E io non sapevo che cosa dire, benché sentissi che il mio silenzio fosse la più esplicita delle confessioni. Restavo immobile, affascinato dalle sue mani troppo grasse che faticavano a stringere la cartina. Fili di tabacco cadevano sulla sua camicia. Era una tortura ormai insopportabile. Le sue dita tentavano, ma il tabacco era troppo, oppure mancava e infine la cartina si ruppe. Gli offrii la scatola delle sigarette. Rifiutò: fumava soltanto tabacco dolce. Allora, dissi che non avrei seguito l’odissea del mio personaggio sino alla morte. “Mi basta saperlo condannato.” Poi, più calmo, come se la faccenda non mi stesse a cuore. “Potrei scegliere un altro morbo. Ma quale?” E, senza lasciargli il tempo di rispondere: “Bene,” dissi “ciò che m’importa è sapere come l’ingegnere sa che ha la lebbra”.
Qui mi accorsi di aver sbagliato. Serio, con voce improvvisamente fraterna, disse: “Suppongo che si farà visitare”.
“Ma prima avrà delle manifestazioni” risposi. “Ed è in questo che il suo libro mi sarà utile. Gli darò un’occhiata e verrò domani a restituirglielo.”
“Non importa, glielo regalo “ disse in fretta. Con un gesto scortese mi gettò il libro. Solo per un istante i suoi occhi di gatto appisolato mi guardarono, fuggiaschi, quasi temessero di sostare a lungo sulla mia persona. Riconoscevo il mio sguardo, quando avevo guardato le due ragazze.
Ringraziai. Ora il dottore si stava levando e si dirigeva verso la baracca. A passi rapidi entrò e lo sentii canterellare. Si infilò le scarpe, prese il cinturone con la rivoltella e, ad alta voce, mi chiese se andavo in città. Mi avrebbe accompagnato.
La gola mi si strinse. Voleva denunciarmi. O forse no. Ma se si decideva a muoversi, lui, era segno che voleva denunciarmi. Poiché indugiava a cercare qualcosa sul tavolo, fui preso dall’impulso, di fuggire, ma le gambe non mi obbedivano. Dovevo fuggire: non mi avrebbe sparato; non era tipo che mirasse giusto. La testa mi girava e non ero capace di muovere un passo. Il libretto era già umido di sudore, il sudore delle mie mani. Quando ricomparve ci avviammo e, lungo il sentiero, ripresi a parlare. Gli piaceva il mio tema, mi consigliava però di non farne un caso clinico. E io non potevo non ammirare la sua padronanza. “L’ingegnere” disse “si accorgerà di avere la lebbra, e basta. Avrà piaghe, pustole, bolle, noduli analgesici.” Poiché tacevo, aggiunse: “Noduli che a toccarli non provocano dolore. Ma lei si tenga al vago. Un buon scrittore non precisa mai”.
Risposi che tale era la mia intenzione. Avevo la gola secca e appena vedevo il sentiero. Nella tasca, la mano era diventata di piombo. “Quindi,” seguitò “lasci la malattia del suo personaggio” e ancora una volta calcò le parole “all’intelligenza del lettore. Tenga presente che la lebbra, per manifestarsi, richiede a volte dieci o vent’anni. “
Sentivo che le gambe mi si piegavano, ma il dottore con studiata lentezza seguitò dicendo che si contavano numerosi casi di contagio rapido: “Tre mesi, un mese, una settimana persino. Nei soggetti giovani, s’intende. L’infezione allora si trasmette attraverso un taglio, una ferita”.
Qualcuno rideva dietro alle mie spalle, lontano. Mi volsi, era un soldato che veniva lungo il sentiero e tirava ciottoli a qualche animale nascosto tra le erbe. Mi fermai. Volevo che il soldato proseguisse, lasciandoci soli. “È spaventoso” dissi.
“Sì, è spaventoso” ripeté il dottore sorridendo. “Io non sono dermatologo, ma è spaventoso egualmente.”
Ora mi guardava fisso. Guardava proprio la mia mano, che avevo sino allora tenuto in tasca. Perché d’istinto la rimisi in tasca? Non disse nulla. Anzi, dopo un istante avrei giurato che non aveva visto la benda, s’era solo incuriosito a guardare uno scorpione che attraversava il sentiero. Era calmo. “C’è qualcosa di guasto in questo paese” dissi. Pensavo al sottotenente, che anche lui “sapeva”.
“È un impero contagioso” aggiunsi, e riuscii a sorridere. Dovevo parlargli, imporgli la mia sicurezza. Fece un gesto desolato e disse che l’imperialismo, come la lebbra, si cura con la morte. Voleva stare al mio giuoco, ma nei suoi occhi vidi improvvisa la pietà per il male che già mi sconvolgeva. Le forze mi stavano abbandonando, avevo commesso l’errore di non tornare al campo, ed ero digiuno dalla mattina. Quando mi appoggiai al dottore egli si scostò come se avessi voluto colpirlo, poi arrossì e si fece tetro. Lo ammiravo. La sua corpulenza, coronata da una testa infantile e biondiccia, mi faceva persino credere che tutto si sarebbe risolto in uno scherzo. Ci eravamo già concessi una scambievole amicizia e sapevamo che la scadenza stava approssimandosi. Entrambi indugiavamo, prima di commettere il gesto irreparabile che ci avrebbe divisi per sempre.
Ora, ai rimproveri che mi facevo di esser stato incauto, si aggiungeva il rimprovero di aver conosciuto un amico e di doverlo perdere nell’attimo stesso della rivelazione. Anch’egli pensava la stessa cosa, immagino, ma non sapeva venir meno al suo dovere. Ognuno di noi aveva il suo dovere da compiere verso l’altro. “Su,” pensavo “perché non chiami questo soldato che passa e non ti fai aiutare a portarmi all’ospedale? Devi decidere tu.”
Il soldato si allontanò fischiettando.
Ripresi a parlare, volevo sempre più mostrargli che non ero emozionato, ma egli ora sfuggiva il mio sguardo, e sembrava assorto in un pensiero doloroso. In quel momento sentii di amarlo fraternamente. Tutto era stato già detto, avremmo potuto soltanto ripeterci, e non osavamo proseguire, perché ci sentivamo incapaci di un sacrificio. Lo salutai: “Grazie tante, dottore”. Avrei voluto abbracciarlo: stava a lui ora decidere se il condannato ero soltanto io.
“Dunque, non viene in città?” chiese.
“Preferisco far quattro passi tra i campi” e lo guardai fisso. Gli offrivo l’ultima attenuante: la mia calma. Lo scongiuravo di non credere alla mia lebbra, vedendomi così calmo, e di togliersi ogni dubbio. Il dottore pensò un attimo e disse ciò che temevo: “Tutto sommato, non ci vado nemmeno io in città. È già tardi. Anzi, perché non mi accompagna e non cena con me?”.
Non era un ordine, ma un invito. Un invito ad accettare il mio male e a desistere da una lotta senza speranze. Non potevo accoglierlo, perché rifiutavo di credere alla mia sventura se non fossi prima uscito da quella terra. Non ero malato e nessuno aveva il diritto di accertarsi se ero malato. Il dottore ripeté l’invito, a voce più bassa, voleva apparire indifferente. Cercava di mettere allegria nei suoi modi e quella mal recitata commedia adesso mi indignava. Perché non mi metteva di fronte al fatto compiuto? Ecco, la sua insolente pigrizia stava cedendo, e ora si comportava come un fratello, ma purtroppo come un fratello minore. Sapermi più forte e deciso di lui mi stava togliendo ogni coraggio. M’invitava a cena, sapendo che dopo avrebbe dovuto distruggere posate, bicchieri, stoviglie, per trattenermi e intanto chiamare qualcuno del comando e dell’ospedale. L’ultima cena, insomma, della nostra precaria amicizia. Perché si muoveva attorno a me, impaziente, ma evitando sempre di guardarmi? Sapeva di recitare la parte ingrata e me ne chiedeva scusa, non immaginando che io ero già pronto a fare di peggio, senza sentirmi obbligato. “Sta bene,” pensai “sarò il più forte.” Ma nell’attimo stesso, il dottore s’era incamminato verso la baracca. Mi precedeva, affidandosi a me. Era così calmo, che lo seguii.
Non mi importava più di nulla, mi prendessero pure. Sempre al tramonto mi assaliva quella sfiducia, quel presentimento di morte e la certezza che era inutile lottare. Lo seguii in silenzio, come un prigioniero. Andò nella baracca a svestirsi, scrisse qualcosa su di un foglio, posò il cinturone. Poi vidi che sfilava la rivoltella dalla fondina. Allora fuggii.
Corsi un buon tratto del sentiero senza voltarmi, mi acquattai dietro un albero. Il sangue mi batteva alle tempie, stavo pensando che se m’avesse denunciato sarebbe stata la fine per me. Una volta preso, niente licenza e niente ritorno.
Adesso dovevo star calmo. Anzi, ero calmo. Non c’era nessuno oltre al dottore nella baracca. Il soldato era in città e non avrebbe mai portato quel biglietto al comando. Non doveva portarlo. E soprattutto bisognava evitare le indagini, o confonderle. Rammentai la bottiglia del petrolio e lo straccio. Giusto: mentre, puliva la rivoltella.
Il dottore mi stava cercando. Forse pensava ch’ero là vicino, e sembrava impaziente. Quando mi chiamò, risposi, e parve rassicurarsi. “Ho lasciato lì il suo libro?” gridai.
“No” rispose.
“Dev’essermi caduto, ma lo cercherò più tardi.” E tornai indietro. Ero calmo, al punto da restarne sorpreso e anche lusingato. Il dottore s’era seduto e già scompariva assorbito nel grigio del crepuscolo. “Forse,” pensai “al mio posto farebbe lo stesso. Almeno, voglio sperarlo.”
Ero ormai vicino alla baracca e il dottore non mi aveva sentito. E io m’ero avvicinato così piano, proprio come un assassino provetto, che non mette nel muoversi più dell’attenzione professionale. Gli fui vicino, ma non poteva vedermi, ero nascosto da una pianta. “Tenente” disse il dottore. Aveva alzato il capo e guardava verso di me, gli occhi fissi: allora, rapido, sparai.
Lo vidi sobbalzare, s’era mosso un attimo prima. S’era mosso, lui che stava intere giornate nella sua sedia a sdraio senza batter ciglio! Pronto, premetti ancora il grilletto, ma la rivoltella adesso non sparava. Premetti ancora, non sparava.
Il dottore era in piedi, correva verso la baracca, con quell’agilità improvvisa che soltanto i pigri posseggono. Fuggii verso la strada, mi gettai in un fosso, poi ripresi a correre e, attraverso i campi, raggiunsi la strada di circonvallazione, per non essere costretto a entrare in città. Mi fermai molto lontano, non sentivo nessun rumore sospetto, forse il dottore aveva rinunciato a inseguirmi, o non ci aveva mai pensato. Probabilmente aveva il telefono nella baracca.
Ero in trappola lo stesso. Mi avrebbero preso. Soltanto allora rammentai che la rivoltella non aveva sparato. Con le mani che tremavano, la esaminai. Mancava il caricatore. E come? Non ricordavo. Di colpo scoppiai a ridere, ma era un riso secco, rapido, che mi scuoteva e mi costrinse a sdraiarmi tra le erbe. L’avevo lasciato sulla cassetta, il caricatore, accanto alla fotografia di Lei e alla bottiglia del petrolio, nel mio ridicolo tentativo di suicidio. Ben presto mi accorsi che singhiozzavo, erano lunghi lamenti che non sapevo trattenere e che mi lasciarono stordito. “Il mio suicidio è riuscito perfettamente” ripetevo.
Ripresi a correre verso l’accampamento. Dovevo montare un alibi, almeno, o fuggire. Dovevo riflettere, ma ben presto convenni che non c’erano piani che non contemplassero la fuga, anzi la diserzione. Cos’avrei risposto all’interrogatorio? Potevo negare di aver sparato, sostenere che il colpo era partito per disattenzione (ed era ingenuo sperare di convincere qualcuno), restava sempre da negare il mio male, e questo era addirittura sciocco sperarlo. Dunque, la fine o la diserzione.
Avevo qualche ora di tempo, i carabinieri non sarebbero venuti d’acchito al nostro campo, avrebbero cercato tra gli ufficiali ospiti del comando tappa, avrebbero fermato i camion. C’erano altri reparti vicini al nostro. Se avessi avuto una notte di vantaggio, la mia fuga poteva riuscire. Avrei abbandonato il campo dopo cena quando a nessuno sarebbe venuto in mente di cercarmi, o la mia assenza potrebbe essere giustificata sino al mattino. Ma dove sarei andato? “Eppure,” dissi “debbo fuggire.”
Queste parole mi colpirono come dette da un altro e ancora dovetti sedermi, affranto. Ecco, il disegno di Mariam cominciava ad apparire in tutta la sua perfidia. Voleva “isolarmi”, peggio di quanto già fossi. “Ci sarà una circolare del comando” pensai. Sconvolto dall’ira, tesi i pugni verso la valle, che intuivo lontana, sotto le magre montagne che segnavano il cielo violetto, e maledissi Mariam.
La fuga, dunque. Evitando la strada, raggiunsi l’accampamento, preparai lo zaino, vi aggiunsi una coperta e quando, per stornare i sospetti, mi recai a cena, il capitano mi annunziò che avevo ottenuto la licenza. Gli amici, benché a malincuore, si congratularono.